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La NeuroPsicoterapia, costrutti teorici e applicazioni - Prof. Carlo Blundo




Sebbene il concetto di Neuropsicoterapia si possa far risalire già a Freud, si deve allo straordinario sviluppo delle neuroscienze, sperimentali e cliniche, il tentativo di congiungere la neurobiologia con la psicoterapia. Questa definizione, apparentemente semplice e di univoca interpretazione, nasconde, tuttavia, significati sostanzialmente diversi tra loro.


Un primo, più comune significato con cui viene usato il termine di neuropsicoterapia (1), si riferisce all’utilizzo da parte dello psicoterapeuta , di scoperte (ad es. il sistema dei neuroni a specchio), indagini diagnostiche e tecniche terapeutiche derivate dalle neuroscienze (ad es. la Risonanza Magnetica e l’EMDR). In questa accezione, la neuropsicoterapia cerca di conciliare conoscenze e applicazioni biologiche con conoscenze e strumenti di matrice psicologica, ma questi contributi tendono più ad “affiancarsi” che realmente a integrarsi.


Un secondo significato di neuropsicoterapia concettualizzato da Judd, 1999 (2) si riferisce all’applicazione della psicoterapia di differenti approcci, a pazienti con disturbi cognitivo-comportamentali secondari a danni cerebrali di diversa eziologia. In questo contesto, essendo la persona con patologie cerebrali spesso portatrice di deficit cognitivi oltre che di problemi emotivo-comportamentali, la neuropsicoterapia comprende in molti casi, sia trattamenti di riabilitazione neuropsicologica/psichiatrica sia di psicoterapia. Tuttavia, nonostante questa combinazione di interventi, la conoscenza neuropsicologica degli effetti del danno cerebrale sulle funzioni cognitive e sul comportamento, in generale tende a rimanere distinta dalla conoscenza delle articolate dinamiche psicologiche del paziente.


A parte queste considerazioni, si deve segnalare come fino a meno di venti anni fa, la riabilitazione cognitiva di pazienti con danni cerebrali era ritenuta l’unica possibile in questo tipo di pazienti, considerati refrattari alla psicoterapia. Lavori e studi di neuropsicoterapia su pazienti con danni cerebrali hanno invece dimostrato come la psicoterapia insieme alla riabilitazione, possa migliorare le capacità funzionali del paziente, aiutarlo a superare i disturbi psicopatologici e motivarlo nel processo di accettazione e riadattamento al suo ambiente familiare e sociale (3)


Un terzo e innovativo significato di neuropsicoterapia si fonda su una Modellizzazione gerarchico sistemico relazionale del Sistema Nervoso Centrale basata sulla Teoria dei Sistemi Motivazionali (4,5). Come è noto, l’architettura di questo Modello è costituita da differenti livelli gerarchici strutturali – funzionali, emersi nel corso della evoluzione, nei quali sono inscritti sistemi motivazionali intra-, inter- e sovra-personali che permettono all’individuo di relazionarsi rispettivamente con l’ambiente fisico, interpersonale, socioculturale. In questa prospettiva , nei pazienti con danni cerebrali è possibile, dopo avere localizzato la lesione tramite esami di neuroimaging in un determinato network neurale, collegare un determinato disturbo psicopatologico ad un sottostante sistema motivazionale reso disfunzionante sia da determinanti di natura psicologica sia dalla lesione stessa (ad es. una lesione nelle aree limbiche come pure pensieri, stili di vita, eventi personali possono causare disturbi comportamentali ricollegabili a una disfunzione del sistema limbico dell’agonismo). Ovviamente, qualunque comportamento disfunzionante non deve essere interpretato in una ottica localizzazionista, data la organizzazione gerarchica, integrata e dinamica dei diversi livelli organizzativo-funzionali del SNC. L’interpretazione localizzazionista delle funzioni mentali è stata , infatti, sostituita da una visione associazionista,secondo la quale una funzione dipende dalla attività integrata di regioni cerebrali distanti connesse da fascicoli di sostanza bianca. In presenza di una lesione ad un certo livello neurale, è plausibile ritenere che essa produca una dis-integrazione tra questo livello e i livelli sovrastanti e sottostanti, cui consegue una riorganizzazione dell’intero sistema (6). Da questa riorganizzazione emergono nuovi assetti cognitivo comportamentali che possono essere disfunzionanti e quindi richiedere un intervento psicoterapeutico. Di fronte a una riduzione delle capacità di autoriflessività e di relazione con l’ambiente che un paziente può presentare (dipendenti dal suo livello disfunzionale omeostatico, limbico o neocorticale), il terapeuta potrà scegliere le strategie psicoterapeutiche più adatte per potenziarle. In questa prospettiva, è possibile suddividere in maniera schematica il repertorio delle tecniche cognitivo-comportamentali in:


Tecniche comportamentali che agiscono sull’ambiente del caregiver: si tratta di interventi psicoeducativi sul caregiver in cui vengono discussi i comportamenti disfunzionali del paziente e consigliate tecniche ad esempio di estinzione e di rinforzo. Questi interventi sono spesso gli unici possibili quando il livello di disfunzione mentale e di relazione con l’ambiente del soggetto (con demenza avanzata, grave depressione, stato confusionale etc) non consentono un intervento diretto né una relazione cooperativa che deve essere quindi creata con il caregiver.


Tecniche emozionali (di regolazione emozionale per incrementare l’autoriflessione, tecniche immaginative, rilassamento muscolare, mindfullness etc) indicate per i soggetti con disregolazione emotiva secondaria a disfunzioni del livello limbico.


Tecniche comportamentali (automonitoraggio, biofeedback, modeling etc) possono essere impiegate in soggetti sia con elevato grado di autoriflessività sia anche in soggetti con basso grado di riflessività.


Tecniche cognitive (psicoeducazione, ristrutturazione cognitiva etc) sono possibili quando il paziente sia dotato di un sufficiente grado di consapevolezza e capacità autoriflessiva e quindi abbia un livello funzionale corticale adeguato tale da potere attuare una relazione terapeutica di tipo cooperativo.


Un contributo dettagliato sull’approccio e le procedure della neuropsicoterapia, in questa sua terza accezione, si può trovare nel caso clinico Un paziente inquieto in cerca di guai (I e II parte) pubblicato nel Portale di Formazione in Neuropsicologia e Neuropsichiatria (per accedere ai casi clinici e agli altri contenuti della piattaforma iscriversicliccando su: https://neuropsicoclinic.com/) a cui può accedere chi fosse interessato ad approfondire questo argomento.

In breve, il caso clinico riguarda un paziente, con un livello intellettivo nella norma, che in seguito ad una lesione cerebrale acquisita fronto-temporale, sviluppa comportamenti impulsivi-aggressivi, causa di gravi problemi familiari e sociali. Nella patogenesi dei disturbi comportamentali del paziente, si incrociano elementi propri della sua storia personale (un attaccamento disorganizzato con attivazione disfunzionale del sistema agonistico) con gli effetti che la lesione cerebrale produce sui circuiti della emotività e della cognizione sociale. Il caso descrive l’analisi funzionale e i diversi interventi effettuati dalla psicoterapeuta (coadiuvata da un riabilitatore esperto in tecniche comportamentali), grazie ai quali il paziente riesce progressivamente a inibire la rabbia e l’impulsività, a non agire più irriflessivamente le dinamiche agonistiche regolate inizialmente solo dalla “mente limbica” e successivamente ad attivare processi cognitivi e metacognitivi regolati dai livelli neocorticali della attività mentale. Integrato con il lavoro psicoterapeutico si svolge l’intervento riabilitativo cognitivo sulle funzioni attentive ed esecutive parzialmente disorganizzate dalla lesione cerebrale, rappresentando dei co-fattori che a loro volta contribuiscono allo sviluppo dei disturbi emotivo-comportamentali.


Questa terzo significato di intendere la neuropsicoterapia, rispetto ai due precedenti, tende quindi a superare la dicotomia tra componenti biologiche e componenti psicologiche del comportamento, concettualizzando la loro relazione come espressione di un continuum fisiopatologico, con i determinanti biologici ad un estremo e quelli legati all’ambiente interpersonale e socioculturale all’altro estremo (6).


Numerosi pazienti con disturbi psicologici e comportamentali secondari a patologie cerebrali di varia eziologia (cerebrovascolare, neoplastica, traumatica etc.), spesso incontrano difficoltà a trovare psicoterapeuti e riabilitatori che in sinergia li prendano in carico. Questa difficoltà deriva dalla “zona grigia” in cui questi pazienti si collocano: non ricadono nella competenza neurologica in quanto hanno problemi psicopatologici né in quella psichiatrica e psicologica perché hanno un danno cerebrale. Per superare questi ostacoli “ideologici” occorre una conoscenza integrata dei saperi propri della psicoterapia, della neuropsicologia e della riabilitazione. Sul piano pratico, potrebbe essere difficile per un professionista riunire insieme tutte queste competenze, per cui un lavoro in team tra esperti in queste diverse discipline è altamente indicato. Al di la delle singole competenze, gli operatori del team devono però avere una cultura autenticamente biopsicosocioculturale, tale da permettere di condividere un modello fisiopatologico unitario dei disturbi mentali, in cui il versante strutturale e quello funzionale non siano separati ma disposti lungo un continuum, la cui conoscenza è essenziale per ricostruire il percorso eziopatogenetico alla base dei problemi cognitivo-comportamentali del paziente. La conoscenza di questo percorso eziopatogenetico inizia con la ricerca dei sistemi motivazionali che sostengono i pensieri, le emozioni, i comportamenti del paziente e prosegue poi con la definizione dei livelli neurali in cui questi sistemi sono inscritti e la cui disorganizzazione, alterando la relazione struttura-ambiente, determina i cambiamenti psicologici osservati nella persona. Disfunzioni neurologiche (a carico della attenzione, della memoria, delle funzioni esecutive etc), possono insorgere come conseguenza della alterazione di determinati livelli strutturali e contribuire alla patogenesi dei disturbi psicopatologici. Interventi di riabilitazione neuropsicologica/rimedio cognitivo saranno quindi necessari e dovranno essere sintonici con il trattamento psicoterapeutico.

Senza un approccio unitario e autenticamente biopsicosociale, i diversi dati sulla conoscenza dei disturbi mentali di qualunque natura, rimangono frammentari come frammentari rischiano di rimanere anche gli interventi di cura. In questo senso la neuropsicoterapia stimola la riflessione sulle componenti patogenetiche biopsicosocioculturali dei disturbi neuropsichiatrici che tra loro si integrano ma senza tuttavia annullarsi o confondersi. Come viene spiegato nel caso clinico sopra menzionato, lo psicoterapeuta e il riabilitatore dovranno ricercare queste componenti nel loro paziente e poi trattarlo con interventi ugualmente biopsicosocioculturali, riabilitativi e psicoterapici, concettualmente e operativamente non separati ma sinergici.


Prof. Carlo Blundo

Specialista in Neurologia e Psichiatria

Direttore dei Master in Neuropsicologia e in Riabilitazione Cognitiva

Università LUMSA- Roma



BIBLIOGRAFIA:

1.Grawe K (2004) Neuropsychotherapie. Hogrefe, Go¨ttingen

2.Judd D. , Wilson S.L. Psychotherapy with brain injury survivors: an investigation of the challenges encountered by clinicians and their modifications to therapeutic practice. Brain Injury 2005 Jun;19(6): pp.437-449.

3.Klonoff P.S. , Psychoterapy after brain injury. Principles and techniques. The Guilford Press, 2010

4.Liotti G., Fassone G., Monticelli F., L’evoluzione delle Emozioni e dei Sistemi Motivazionali. Raffaello Cortina Editore, 2017

5.Blundo C., Ceccarelli M.: L’organizzazione gerarchico-strutturale del sistema nervoso centrale: l’evoluzione della mente, in Blundo C. (a cura di) Neuroscienze cliniche del comportamento, Elsevier, 2011

6.Ceccarelli M.: L’organizzazione gerarchico-funzionale della mente: lo sviluppo dei processi mentali, in Blundo C. (a cura di) Neuroscienze cliniche del comportamento, Elsevier, 2011




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